il Tempo del massimo carico tecnologico

“…il diagramma di Ortega e Nielsen indicava soltanto il periodo medio di tempo che separava la nascita della protocultura dal momento dell’esplosione tecnologica… la curva del progresso tecnologico era una parabola che… una volta iniziata la sua accelerazione, diveniva una variabile indipendente dalla sottostante struttura di civiltà… una curva logistica di un processo autocatalitico… 

quando si raggiungeva il limite di capacità… chiamato da altri autori massimo carico tecnologico, la civiltà in questione era costretta a prendere una decisione globale relativa al proprio futuro.

Se non era disposto a farlo, o se non era in grado di farlo, essa periva.“
 

cit. Stanislaw Lem “Il pianeta del silenzio” – 1986 – Mondadori

Un AlkiMysta ha sempre bisogno di qualche buona lettura che contenga delle istruzioni di base oppure possa trasmettere dei concetti di logica (o pseudologica?) sui quali elaborare una propria idea. Proverò ora a non spoilerare troppo un’opera di un autore che nella sua vita ha venduto 27 milioni di libri tradotti in almeno 41 lingue, geniale e visionario, candidato dalla Polonia nel 1977 al premio Nobel, esponente del ramo della fantascienza definita anche come psico-fantascienza. Descriverò solo alcuni passaggi della trama vera e propria di questo libro del 1986, solo qualche isolato dettaglio che sarà evidenziato in carattere corsivo, ma vorrei soprattutto puntare il faro verso il pensiero alla base di questa sua narrazione.

Prima di tutto mi allineo anch’io con chi identifica l’oggetto principale di questo romanzo nella “incomunicabilità”. Cos’è l’incomunicabilità, perché non solo se ne parla ancora oggi nonostante tutti gli strumenti a nostra disposizione, ma cosa può ridurla o aumentarla, quali sono i nostri limiti di intervento e perché è considerata la maggior fonte di insoddisfazione, incomprensione, solitudine e depressione? Divagazione rapida: nel 2023 qualcuno crede di poter superare questo tema grazie al bombardamento iper-comunicativo nonostante tutto il fardello di connotati negativi che comporta, si punta alla quantità e poco alla qualità. Oggi identifichiamo la comunicazione come la chiave per il successo nei rapporti sociali e socio-economici; siamo tuttavia consapevoli che lanciare messaggi con un enorme megafono in stile Totò “vota Antonio La Trippa” non basta, se prima non selezioniamo come e cosa comunicare, e soprattutto se non lo facciamo nei tempi giusti.

Lem ci descrive un lontano futuro in modo chiaro ed esplicito senza ricorrere a fumose e profetiche quartine, tratteggiando in generale una prospettiva negativa data una sua tendenza al pessimismo nei confronti del nostro destino. Si potrebbe presumere che certi problemi da lui sofferti a causa dei nazisti prima e dalla censura comunista poi, conditi nel frattempo da guerra fredda e minaccia nucleare globale, non lo abbiano ben predisposto in merito alle potenziali aspettative sul genere umano; come potremmo dargli torto? Gli scenari lontani migliaia di anni dai nostri tempi diventano previsioni azzeccate di situazioni palpabili “solo” – si fa per dire – qualche decennio dopo essere stati scritti. Sigillando il percorso evolutivo sociale a quello tecnologico, incorpora nelle sue trame e nei suoi protagonisti umani il pensiero della inevitabile deriva per ogni tipo di futuro immaginabile. La colpa degli umani, se vogliamo considerarla tale, è data dal fatto che qualsiasi sia lo sviluppo tecnologico raggiunto essi non potranno mai cambiare la loro essenza fatta di sentimenti, stati d’animo, pregiudizi, valori, credo religioso. Possiamo davvero non tenere conto del fattore umano?

La tecnologia amplifica su larghissima scala effetti positivi e negativi di una determinata “scoperta” non solo per lo scopo per la quale viene utilizzata, ma anche per le conseguenze nell’errata applicazione della stessa. La superficialità, un piccolo errore di calcolo nell’uso di queste scoperte, potrebbe provocare calamità mondiali. Dal momento in cui si supera un determinato punto di arrivo (scientifico) che rappresenta allo stesso tempo un punto di svolta e di non ritorno (vedi l’incipit), una qualsiasi ipotetica civiltà, terrestre o extraterrestre, apre le porte alla possibilità di una deriva distruttiva e autodistruttiva.

Il nuovo punto chiave si sposta dalla pura tecnologia, e le variabili introdotte dall’Uomo, alla centralità del Tempo. Il nostro pianeta esiste circa da 4.5 miliardi di anni, noi Sapiens abbiamo iniziato a scrivere solo 5mila anni fa (e tutt’ora scriviamo molto male) ma nel tempo che, in confronto alla storia del pianeta, è pari a un batter di ciglia, siamo riusciti ad inviare una sonda a 23 miliardi di chilometri di distanza da casa nostra. E tutto questo nonostante rispetto alla scala Kardašëv (rivisitata e aggiornata concettualmente in tempi recenti anche da Michio Kaku) siamo ancora fermi alla civiltà Tipo Zero! In fondo alla classifica, come fanalini di coda, ce la caviamo bene, dato che vantiamo una considerevole capacità di autodistruzione con bombe atomiche o con armi chimico-biologiche: siamo dei masochisti tafaziani.

Nel corso del Tempo, esempi di momenti di massimo carico tecnologico possono essere considerati il controllo della genetica, delle condizioni bioclimatiche del pianeta o del sistema planetario di appartenenza, la creazione lo sfruttamento e la gestione totale dell’energia per qualsiasi scopo civile o militare, la capacità di colonizzare lo spazio circostante (parliamo dello spazio extra planetario) e infine la capacità di spedire, ricevere e soprattutto interpretare segnali provenienti da altre civiltà. Ma quali segnali? Quale linguaggio? La tecnologia per ora ci ha reso consapevoli della possibilità di contatto con altre civiltà. Non sappiamo ancora, però, se abbiamo realmente a disposizione tutte le chiavi di lettura di un segnale proveniente dallo spazio. La fisica ha ancora più incognite che risposte. 

Abbiamo davvero qualche convenienza nel segnalare la nostra presenza e cercare di comunicare con una civiltà diversa dalla nostra?

Il nostro istinto e gli avvenimenti degli ultimi, diciamo circa diecimila anni, ci ricordano che un eventuale contatto rappresenterebbe una incognita, nell’affrontare la quale converrebbe restare all’erta e ben armati.

“People, they fall apart, No one can stop us now, ‘Cause we are all made of stars…” We Are All Made of Stars – MOBY

Le domande che ci sottopone Lem prendono forma. Partiamo da una premessa: ci chiediamo se sulla Terra siamo già stati visitati in passato da civiltà aliene, oppure se mai un giorno busseranno alla nostra porta, ma abbiamo anche il dubbio che in fondo possano davvero esistere civiltà diverse oltre alla nostra. Se valutiamo il tempo di vita di una galassia la nostra solitudine potrebbe essere semplicemente frutto del fatto che siamo “sfasati” di qualche milione di anni rispetto ai livelli tecnologici minimi che ci permetterebbero di comunicare con i nostri coinquilini spaziali. Il Cinema continua a marciare sopra a queste ipotesi fin dai tempi del muto…di solito facciamo la parte dei poveri disgraziati impauriti che subiscono le angherie dei nostri visitatori e siamo da questi considerati come esseri inferiori, come delle formichine da studiare. O schiacciare.

Ma c’è una seconda ipotesi.

E se al contrario di tutto ciò, una volta superati indenni i massimi carichi tecnologici senza cadere nella tentazione di nuclearizzarci, potessimo diventare “noi” la civiltà evoluta che esce allo scoperto, desiderosa di toccare con mano altri mondi, “di persona personalmente” come direbbe Catarella nei film di Montalbano? 
In questo caso, una volta identificata una forma di vita extra-planetaria da visitare, quando potrebbe essere il momento ideale per provare a comunicare con questa civiltà?

Ebbene – a prescindere dai nostri forti desideri di esplorare l’ignoto – per nostra convenienza Lem ci invita a valutare con attenzione molti aspetti prima di lanciarsi tra le stelle e fare capolino dalle nuvole di un nuovo pianeta.


I protagonisti della storia vengono lanciati in una missione che prevede un viaggio nel tempo (nel futuro), alla velocità della luce (naturalmente!) per prendere contatto con un pianeta individuato al momento della partenza dalla Terra come incubatore di vita allo stato primitivo. Vengono calcolati i tempi di viaggio (un mese di viaggio corrisponde a qualche migliaio di anni sul pianeta di destinazione) e si scopre che i nostri devono partire in fretta e furia.


Di nuovo il Tempo e il fattore umano ritornano protagonisti.

Come per la traiettoria di sparo di una pistola una leggera torsione di pochi gradi della canna può significare di mancare il bersaglio di un metro, un ritardo anche minimo della partenza potrebbe rendere vano il viaggio. Questa civiltà potrebbe essersi già autodisintegrata, oppure potrebbe disporre già di una tecnologia pari o superiore alla nostra; in tal caso i nostri rappresentanti rischierebbero di dare nuovamente ragione ai cinefilm, finendo arrostiti ancora prima di trasmettere il segnale radio ”veniamo in pace”.

L’astronave arriva nell’orbita del pianeta da contattare. Serpeggia però il presentimento di avere a che fare con una civiltà troppo evoluta. Forse sono stati sbagliati i tempi di viaggio e si è arrivati troppo tardi? Non ci sono certezze del loro reale avanzamento tecnologico. A bordo si cerca il modo di comunicare, si provano a lanciare messaggi che non hanno alcuna risposta. Ogni componente dell’equipaggio, seguendo la propria indole e i propri valori o le proprie convinzioni, propone un metodo di contatto diverso. Deciderà per tutti il comandante.


In quella astronave il piccolo equipaggio rappresenta tutti noi, umani. 
“Noi”, di “loro”, in realtà non sappiamo nulla. Forma, colore, grandezza…abbiamo solo la presunzione che sia sufficiente poter contare su una certa superiorità tecnologica per poter gestire la comunicazione con questi sconosciuti.
 Non sappiamo cosa provino, da quale spirito siano animati. Cosa rappresentiamo per ”loro”? Un pericolo? Una salvezza, una opportunità? Non abbiamo alcun tipo di riscontro della loro essenza dei loro sentimenti, stati d’animo, pregiudizi, valori, se abbiano o meno un credo religioso.

A bordo dell’astronave l’unica certezza del comandante è che i potenziali interlocutori sono perfettamente in grado di rispondere ai suoi messaggi. Ma nonostante ripetuti tentativi, preferiscono non rispondere. Silenzio, solo silenzio. Perchè?

Questa è la sottile trappola che ci tende Lem. Prima ci disegna come grandi scienziati, esploratori, coraggiosi avventurieri, grandi comunicatori, dispensatori di verità. 
Poi però basta il silenzio per farci tornare piccoli uomini persi nello spazio.
Perché nessuno ci rivolge la parola, perché nessuno ci risponde? Adesso siamo “noi” gli alieni. Siamo “noi” quelli che forse è meglio affrontare con le armi puntate.


 

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Stenislaw Lem

Davide Moressa

Davide Moressa  ”Alien” - Sommelier appassionato di Vino e del mondo che lo circonda -  Se mi volete contattare scrivete a davidemoressa@tiscali.it

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