Più vivo di noi c’è solo Fonzie.

Il gruppo di Fantacalcio di cui faccio parte da ormai dodici o forse tredici anni è fantastico.

Ne fanno parte: Davide con cui ho condiviso presentazioni dei miei libri, musica degli Al.Ki. project e adesso gli articoli degli Alkimysty (e molti bicchieri di vino); poi Il solido e taciturno Paolo con il pur solido e loquace Alby; l’intenditore di vini Luca e Mancio il prof di biliardo; Christian e la sua intelligente umanità; il suo caro amico Frank, piacevole new entry; il funambolico Mamo col suo parlare grasso e colorito; l’Amico e cuor contento Efrem.

Poi ci sono io.

Condividiamo fumose serate di fantamercato in cui finto denaro e alcool vero imbandiscono la tavola per ore. Quando ci troviamo sfoderiamo perle di saggezza che con l’andare dei minuti si impreziosiscono, divenendo gioielli di unico valore. Le cazzate, quei gioielli, non si contano e pare che i problemi non esistano, tanto è pregno di beltà e serenità l’ambiente. Talvolta, però, la vita presenta un conto amaro a qualcuno di noi, allora ci stringiamo a cercare di dividere la spesa, come se i bollettini maledetti che il destino randomicamente consegna fossero sacrifici diluibili in più persone. Si sa che non può essere così, se le lettere hanno un indirizzo univoco un motivo c’è, ma il sapere che qualcuno cerca di crederci è già una medicina naturale.

Insomma, dopo anni di affinamento e sottili cambi di uvaggio, in questo momento (e spero a lungo) noi del Fantacalcio siamo un blend complesso e perfetto.


Finito questo tributo ai miei cari amici, vi racconto di una cosa che ci è successa un mesetto fa: dopo una pizzata allegra in un locale della cintura urbana, ci siamo soffermati di fronte a un juke box a fare un bel giro di battute sui brani contenuti. Difficile dire perché un oggetto vetusto abbia attirato fortemente la nostra attenzione (secondo me il testone di Baglioni è stato decisivo), ma tant’è che eravamo in dieci di fronte al bussolotto di metallo e vetro.

Notato il nostro interesse il titolare del locale è venuto a illustrarci le proprietà dell’oggetto. Il simpatico tipo ci ha raccontato la storia di quel juke box, amorevole Geppetto che descrive Pinocchio, arrivando al punto di attirare anche la curiosità dei più giovani del nostro gruppo.

Un centinaio di dischi in vinile, di grammatura pesante prodotta appositamente per i juke box (nel magazzino di stoccaggio i dischi stanno in piedi, non sdraiati, e quindi la puntina lavora lateralmente, molto più soggetta a eventuali vibrazioni vista l’assenza di gravità sul peso del braccetto portante). Dischi che sono pezzi unici, visto che non sono comuni 45 giri ma vinili speciali (non trovereste mai, se non appunto in questi scatolotti sonori, un lato A con “Vita spericolata” di Vasco e un lato B con “Bohemian Rhapsody” dei Queen). Etichette appositamente stampate per gli apposti vinili speciali. Cristallo antisfondamento e antiappannamento. Piedini regolabili antivibranti.

  

Ma il top, il momento che mi ha emozionato, è stato meno tecnico descrittivo e più meramente meccanico. Il tipo ha aperto il frontale del juke box per farcene vedere il funzionamento: all’occhio, si è aperto un meraviglioso battaglione di vinili nelle loro sedi, dei neri cavalli purosangue dentro ai box di partenza; e poi uno stuolo di cablaggi eseguiti a mano con pazienza certosina, in un guazzabuglio medievale fantastico ed efficiente. Ma ancor più, al naso, ecco un meraviglioso odore di grasso, quell’odore che inondava i garage dei miei amici quando smontavano i loro Fantic Motor in tutti i pezzi scomponibili immaginabili (come fossero numeri primi in matematica) per poi riassemblarli con qualche sapiente (e spinta) modifica artigianale.

Mi sono chinato nel juke box, affondando testa e narici. Sopraffatto anch’io dalla comodità e dall’infinita vastità della musica fluida, avevo dimenticato che la musica stessa, un tempo, poteva odorare di grasso e mani unte, di tuta da lavoro blu e di poesia. Era solida, aveva peso, odore, volume. Tanta musica, tanto spazio: e infatti tutti invidiavamo coloro che avevano scaffali di ellepì.

Lì, con la testa tra cavetti, vinili e lubrificanti, ho riassaporato la meraviglia dell’oggetto che allietava le serate al bar un tempo, quel qualcosa che non c’è più. Da studente ascoltavo musica alternativa e per poter fruire dei rari live delle mie band preferite mi dilettavo in fantasmagorici scambi di cassette audio registrate; le scambiavo con gente di tutta Italia e non solo, con i Max Gaozza da Genova e i Sergio Milani da Aosta in una primordiale essenza della rete.

Sarà stata la posizione con la testa all’ingiù (a portare maggior flusso sanguigno al cervello), sarà stato l’insieme di componenti d’altri tempi tra cui avevo inserito il mio cervelletto, mi sono improvvisamente sentito addosso l’emozione che mi pervadeva quando, finita scuola, tornavo a casa e dal cancello del mio condominio vedevo la cassetta postale con dentro una busta imbottita, color avana, contenente la merce di scambio sonoro.

Una emozione indescrivibile. Non voglio fare l’anacronistico che non comprende i cambiamenti: è indubbio che oggi tutto sia a favore della maggior fruibilità e conoscenza, perché internet offre possibilità infinite. Ma vogliamo parlare per un solo attimo di cosa div…

“Sbam!” Geppetto ha chiuso il suo scatolone sonoro interrompendo il mio flusso di pensieri. Gli chiedo se il carillon sixties style funziona ancora. “Certo!”. Va alla cassa e mi porge una vecchia moneta da 100 lire. Io credevo bastasse una pacca sul vetro. Va beh, nessuno di noi è Fonzie. Inserisco la moneta.

La canzone che ho scelto, di un cantautore che non amo ma che ha scritto alcune poesie, accompagna le nostre battute; intanto io riprendo a pensare all’attesa, un vero e proprio desiderio, che provavo da bocia quando per giorni aspettavo l’arrivo di nuova musica da ascoltare, sotto forma di TDK da 90 minuti in pacchetto postale.

Il juke box accompagna, perfettamente accordato, i miei pensieri:

“E cosa diventò, cosa diventò
Quella voglia che non c’è più

Cosa diventò, cosa diventò
Che cos’è che ora non c’è più

E cosa diventò, cosa diventò
Quella voglia che avevi in più

Eh

Ta-ta-ra-ra, ta-ta-ra-ra, ta-ta-ra-ra, ra
Ta-ta-ra-ra, ta-ta-ra-ra, ta-ta-ra-ra, ra, eh”

 

Mi sono chinato nel juke box, affondando testa e narici. Sopraffatto anch’io dalla comodità e dall’infinita vastità della musica fluida, avevo dimenticato che la musica stessa, un tempo, poteva odorare di grasso e mani unte, di tuta da lavoro blu e di poesia. Era solida, aveva peso, odore, volume. Tanta musica, tanto spazio: e infatti tutti invidiavamo coloro che avevano scaffali di ellepì.

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Francesco Sattin

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