Vita da cani!

cane

 

Eravamo in quindici e camminavamo di buona lena da almeno tre ore. Il percorso dapprima in salita si era trasformato in un’arrampicata vera e propria su enormi massi granitici. Io a volte mi tenevo ai rami degli arbusti per tirarmi su e dare un po’ di sollievo alle ginocchia. Qualche settimana prima aveva nevicato. Non c’erano più tracce di neve, ma l’aria era ancora frizzante per essere marzo inoltrato, inoltre soffiava un bel maestrale asciutto. Ho sempre amato scarpinare in campagna, mi dava un senso di euforia e libertà e in quel momento la vista mozzafiato dal Supramonte sulla Valle del Lanaitho mi appagava della levataccia, del freddo e della fatica.

Siccome era quasi mezzogiorno decidemmo che era ora di fermarci per consumare un boccone e riprendere fiato e mentre ognuno di noi cercava un posticino dove accomodarsi, notai che un po’ più avanti, due uomini del gruppo si erano fermati e guardavano verso il basso. Incuriosita mi avvicinai e dentro una cavità nella roccia vidi un bellissimo esemplare di cane Beagle. Doveva essersi perso, poverino, forse durante una battuta di caccia. I due uomini si calarono dentro il fosso e lo portarono in superficie. Il cane appariva in buone condizioni a parte le zampine che avevano sanguinato; aveva un collare nero con incisi il nome Pedro e un numero di telefono cellulare. Ci sedemmo per bivaccare, e in breve tempo, lui diventò la mascotte della comitiva, contento e riconoscente, accarezzato e coccolato da tutti, beveva acqua e divorava avido i pezzetti di pane e formaggio che gli davamo. Avevamo però notato che rimaneva sempre seduto.

A fine pasto, ci furono svariati tentativi di telefonare al numero di cellulare riportato sul collare, ma furono inutili in quanto non c’era ricezione. L’escursione doveva comunque proseguire, ma quando ci alzammo per riprendere la camminata, era palese che Pedro non ne voleva sentire di seguirci e nonostante le nostre insistenze, non sembrava proprio propenso a muoversi, anzi si ostinava a permanere seduto. Al vederci mentre ci allontanavamo, cominciò a guaire insistentemente.  E allora temetti cosa stava per accadere.

Mi ero iscritta all’escursione assieme a una amica di allora, Rachele, fervida animalista e in modo particolare amante dei cani. Spigliata e dalla parlantina facile, trascinava la pronuncia delle parole alla moda cagliaritana, con toni  sincopati e una leggera nasalizzazione, tipica della cadenza del capoluogo isolano. A questo si doveva aggiungere che aveva difficoltà a stare zitta per più di trenta secondi. La guida dell’escursione, che era anche autista del pulmino, per contro era un uomo taciturno e serioso che dava risposte secche con tono quasi stizzito. Per parlare apriva appena la bocca e ogni volta che lo faceva sembrava fare un grande sforzo e una grande concessione agli astanti. I due si erano detestati da subito e c’erano stati pure degli screzi la mattina presto causati dal nostro arrivo in ritardo al luogo convenuto (ritardo di Rachele ci tengo a precisare). Insomma, sarà stato a causa di questo spiacevole episodio, o sarà stata la petulanza di lei che mal si sposava con i modi burberi di lui, sta di fatto che della reciproca antipatia non ne avevano fatto mistero durante tutto il viaggio. 

Le fatidiche parole da me tanto temute, risuonarono nell’incantevole valle del Lanaitho:
- Non possiamo mica lasciare qui questo povero cane!


Gli altri stettero tutti muti; anche io. Mi avvidi delle pupille della guida-autista che rotearono verso l’alto, e lo sentii aggiungere tra i denti:
- Io non mi assumo nessuna responsabilità. 
Girò i tacchi degli scarponi e si mise in cammino seguito dagli altri, in fila indiana.
 Rachele si voltò verso di me:

– Portiamolo noi, poverino. A turno. Dentro lo zaino. Dai!

Non avrei avuto tanta voglia di fare fatica, e in realtà, sì, gli animali mi piacevano pure, ma non sono mai stata eroina da gesti estremi, io. Ma sapevo cosa significasse per lei il salvataggio del cane. Era una vita che attendeva di essere salvata, lei. Quindi, acconsentii. 
Rachele sistemò le sue cose nel mio zaino e facemmo accomodare Pedro dentro il suo zaino, che era più robusto e fu così che continuammo la scarpinata con un ospite a quattro zampe.

All’inizio era tutto molto divertente. Eravamo letteralmente baldanzose, e gli altri spesso si avvicinavano ad accarezzare il cagnetto. Lui era felice, abbaiava e leccava tutti e tutto e continuava a rimpinzarsi di qualsiasi bocconcino gli venisse dato. Dopo circa mezz’ora, Rachele mi comunicò di sentirsi stanca e così ci scambiammo gli zaini. A causa del tempo per lo scambio del carico ci ritrovammo ultime nella fila della comitiva, ma non mi mi preoccupai perché vedevo gli ultimi del gruppo davanti a noi, nitidamente. 

Al passaggio del testimone, dovetti ammettere che Pedro era bello pesante; sentii subito il carico sulle ginocchia già provate da circa tre ore di salita. Inoltre il calore del suo corpicino mi faceva sudare incredibilmente e dopo mezz’ora circa fui io a chiedere il cambio. L’operazione ci distanziò ulteriormente dal gruppo, ma nulla di preoccupante, tutto sommato sentivamo ancora il vociare del gruppo e intravedevamo tra gli alberi i colori vivaci degli zaini e delle giacche.

Gli scambi di carico si fecero più frequenti poiché la salita si era fatta più ripida e noi eravamo più stanche. A un certo punto la mia compagna dovette fermarsi per una pausa fisiologica e prima di appartarsi mi passò il cane. Approfittai per farlo uscire dallo zaino, non fosse mai che anche lui avesse un bisogno impellente. Ma Pedro non si muoveva da dove lo avevo adagiato nonostante il sangue sulle zampine si fosse ormai raggrumato. 

Mentre lo accarezzavo e gli sussurravo vocine, udii un urlo disumano echeggiare nella valle. Mi drizzai subito in piedi e verso il basso della parete scoscesa vidi Rachele che ruzzolava. Aveva assunto una posizione strana: infatti anziché in posizione fetale, quella di protezione, aveva le braccia e le gambe completamente distese, come a forma di “X”. Faceva tantissime giravolte e rotolava così, rigida. Ruzzolava e sembrava non fermarsi più. Mi resi conto che questo nuovo avvenimento ci avrebbe fatto perdere di vista il gruppo e cominciai a preoccuparmi. Se si fosse fratturata un piede o una gamba io non sarei mai riuscita a riportarla su. 

All’improvviso il rovinoso capitombolo si interruppe; e Rachele si fermò in posizione seduta. Mi dava le spalle e si girò per salutarmi con una mano e allora mi sentii alleviata dall’incombente ansia che mi stava attanagliando. Verificai ancora una volta se per caso il cellulare avesse iniziato a ricevere, ma la risposta fu negativa.

Osservavo Rachele risalire lentamente, incerta, usava anche le braccia per agganciarsi ai massi e tirarsi su. Teneva però la testa particolarmente china, quasi volesse annusare il suolo, mi ricordava un cane! Sentivo che si lamentava e che lanciava improperi contro l’autista-guida. Che ci aveva abbandonato. Che era un cinico e un incapace e minacciava denunce varie e possibili contatti con giornalisti di sua conoscenza.

Il mio amico Conan
Il mio amico Conan

Quando si trovò a poca distanza da me mi accorsi che la sua faccia era una maschera di sangue. Aveva una profondo taglio in fronte, sul lato destro della tempia. L’aiutai a sedersi su un masso, lei si lavò la faccia alla bella meglio e io le applicai qualche cerotto di quelli di emergenza che portavo sempre con me in borsa. Ma il materiale si tinse subito di rosso vivo, ed era evidente che il taglio avrebbe avuto bisogno di qualche punto di sutura. Presi una decisione per tutt’e due, anzi per tutt’e tre. Le dissi che io non ce la facevo più a trasportare il cane. Che lei non era in grado di fare sforzi. Che forse non era stata una gran bella idea quella di caricarcelo in spalla e che magari avendolo lasciato nel buco dove lo avevamo trovato, sarebbe stato più facile riconsegnarlo al padrone. Che dopotutto non potevamo biasimare troppo l’autista-guida e che forse il nostro era stato un eccesso di zelo.

Stremata dallo spavento della caduta e forse sorpresa dalla mia inaspettata reazione, con mio sommo sollievo, Rachele convenne anche lei che era arrivata l’ora di lasciare Pedro al suo destino. Esagerata, pensai, ma quale destino. Sarebbe stato perfettamente in grado di cavarsela, il cagnolino. Comunque fu intransigente in merito al giudizio sulla autista-guida: un infame. E si affrettò ad aggiungere però che avremmo dovuto trovare un ovile o un recinto dove lasciare il cane anziché lasciarlo così in mezzo al bosco.

Mi caricai nuovamente lo zaino e il cane sulle spalle e riprendemmo ad andare. Girovagammo per un’altra ora, io con il cane in spalla e Rachele che, nonostante la tempia destra ormai molto gonfia, non perdeva le forze per pontificare sui requisiti di adeguatezza del luogo dove avremmo dovuto lasciare il cane. Scendemmo lungo le pendici per un po’, poi risalimmo e poi di nuovo in discesa. Finalmente, individuato una sorta di recinto, comunicai che avrei lasciato là Pedro. Non potei non notare l’espressione rassegnata della mia compagna d’avventura, e mi liberai in fretta dell’ingombrante carico. Lui non si mosse, naturalmente, e iniziò a piagnucolare in un modo che mi straziava il cuore. Mentre mi allontanavo mi facevo forza pensando che era una questione di vita o di morte. O il cane o noi. Pertanto mi rifiutai di girarmi a guardarlo.

Nel frattempo il sole era sceso parecchio. Avremmo voluto riprendere il cammino ma ci rendemmo conto che non sapevamo verso che direzione procedere. La logica ci fece optare per la discesa verso il basso, e così facemmo. Più leggere, stavolta, ma sempre più stanche. Scendevamo, ma era sempre tutto uguale. Non un punto di riferimento, non una pietra diversa, non un rumore, non un animale. Stanche e disorientate l’unica certezza che avevamo era di essere sul versante orientale, data la posizione del sole. L’aria diventava sempre più fresca e meno luminosa, e noi continuavamo a scendere. Non sapevamo verso dove, ma continuavamo, come automi. E il tempo intanto scorreva tant’è che subito dopo si fece buio e freddo e dovemmo ammettere di esserci perse, irrimediabilmente.

Mentre constatavamo la nostra resa, intravvidi dei bagliori tra gli alberi e mi resi conto che eravamo vicine ad una strada e che i bagliori provenivano da un’auto. Mi girai verso Rachele per condividere la gioia. Lei nonostante tenesse la bocca aperta, si capiva che faceva fatica a respirare. I cerotti che le avevo applicato erano ormai zuppi di sangue, in parte si erano staccati e penzolavano dandole un aspetto singolare. Mi domandavo come facesse a non svenire. Ciononostante constatai che anche il suo viso si era acceso di contentezza all’udire il rombo del motore. La invitai a sedersi, le lasciai lo zaino e con il residuo di forze che mi rimanevano mi precipitai per raggiungere la macchina, ma, mannaggia! Non feci in tempo e della vettura vidi solo i fari posteriori scomparire dietro una curva.

Ormai era andata così. Avremmo trascorso la notte all’addiaccio attendendo l’alba impaurite e infreddolite. Ci sedemmo per terra e bevemmo un po’ d’acqua. Mi avanzava solo una barretta di cioccolato e la divisi a metà. Neanche parlavamo, non c’era più niente da dire. Io ero oltre la preoccupazione. Avrei voluto piangere, ma mi sforzavo di resistere. Ci adagiammo sulle foglie secche e ci coprimmo con una vecchia coperta che portavo sempre in escursione. Faceva già troppo freddo e pensai che non sarei mai riuscita a dormire in quelle circostanze. Invece, mi assopii.

Dopo non saprei quanto tempo, ci sveglia lo scoppiettio di un altro motore, e ci fa ringalluzzire all’istante. Ci precipitiamo entrambe verso lo stradone e di istinto ci barrichiamo al centro strada per essere certe di essere viste stavolta. Il veicolo in questione appare con i suoi fari accecanti. Agitiamo anche le mani e invochiamo aiuto intimandogli di fermarsi. Il mezzo rallenta e poi si ferma. La porta si apre e in quel momento ci rendiamo conto che, incredibile, è proprio il nostro pulmino e  quelli a bordo sono i nostri compagni di escursione! Sentiamo i commenti di sollievo della comitiva, ci scappa pure un applauso. Mi sento quasi un’eroina. Ho anche modo di notare che la nostra guida-autista, invece, a mala pena ci guarda di sbieco, senza neanche spostare lo sguardo dalla direzione di marcia. Ma noi ce ne freghiamo e saliamo i gradini in trionfo!

Pedro è beatamente seduto sul pavimento del pulmino, al lato dell’autista. Bocca aperta e lingua penzoloni. Neanche ci degna di un guaito.

Vita da cani!

 

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