Le luci della città, l’abbandono dei terreni coltivati
Autunno, anni '80. Pianura padana, paesaggio agreste, Lombardia.
Un baldo giovanotto di nome Artemio si sveglia al canto del gallo alle prime luci del sole, in una stanza da letto spartana di un vecchio e rustico casolare, senza nessun comfort e senza riscaldamento. La notte gelida ha lasciato il segno. Il “Ragazzo di campagna" - interpretato da Renato Pozzetto - vorrebbe lavarsi il viso con l'acqua di una piccola tinozza ma deve prima rompere con un martelletto la crosta di ghiaccio superficiale. L'asciugamano è inutilizzabile, irrigidito dal freddo sembra un pezzo di cartone, dall'armadio dei vestiti esce un piccolo pinguino che vi aveva trovato rifugio.
Artemio non sopporta più quel tipo di vita in casa e nemmeno il duro lavoro manuale nei campi. Decide di mollare tutto e tuffarsi nella vicina Milano per provare a diventare un evoluto e moderno cittadino.
Temperature rilevate, temperature percepite, temperature cambiate
D’accordo, stiamo parlando di una esagerazione cinematografica, però non è un mistero che il lavoro in città abbia sottratto e spostato dalle campagne gli addetti all’agricoltura e provocato il conseguente aumento di terreni abbandonati, soprattutto nelle aree non irrigue o nelle località disagiate ed impervie. Ma faceva davvero freddo già in Autunno? Ricordo bene quando “il freddo” autunnale arrivava molto prima rispetto ad oggi, era bello ficcante già a metà ottobre. Se parliamo di pianura padana ad esempio, a casa mia la data critica era il 1° novembre: solo da quel momento si era autorizzati a lamentarsi per la bassa temperatura. Fino al giorno di Tutti i Santi infatti non era gradita la semplice segnalazione “fa freddo!” anche se si girava in casa con il maglione grosso e il berretto. Le istituzioni familiari ribattevano con slogan che erano solo apparentemente generici ammonimenti, ma in realtà nascondevano un obiettivo economico-culturale: risparmiare sul gas, convincere ad accettare quello che offriva la Natura, rafforzare gli anticorpi del nucleo famigliare. Questi slogan erano come i messaggi di Radio Londra, andavano interpretati e decriptati.
1) “è normale che faccia freddo; fa freddo perché è autunno; in autunno DEVE far freddo…per forza!” (sminuire il senso della segnalazione, accusare l’interlocutore di mancata resa di fronte alle evidenze, svalutare il senso di eventuali reclami successivi, caricare di repetita iuvant stordenti)
2)”sei sempre a lamentarti! è meglio che faccia freddo, adesso. Che almeno uccide le mosche. E le zanzare. Il freddo…fa bene!” – vorrei far notare che le cimici non erano ancora contemplate in quanto non ancora considerate degne di nota n.d.r. (slogan viril-utilitaristico-salutistico; si sentono gli echi dell’autarchia, la semina del grano nei giardini delle scuole, salti nei cerchi di fuoco, spade che difendono i solchi dell’aratro, però se dobbiamo dirla tutta anche oggi gli animalisti non prendono le difese di mosche e zanzare, forse c’era un fondo di verità tutto sommato)
3) “pensa a quelli che vivono in Siberia! Non si lamentano come fai te”
(tesi inventata di sana pianta ma non confutabile; non era possibile ricevere testimonianze dirette o credibili provenienti da Est appena oltre il Valico Fernetti, figuriamoci dalla Siberia, area geografica individuabile solo sfogliando i paginoni colorati dell’Atlante DeAgostini. Si richiedeva – sulla fiducia – una tacita e mutua solidarietà con i soviet-siberiani, e questo creava parecchia confusione dato il precedente messaggio “2”. Ho sempre pensato alla Siberia come una terra inospitale ma senza insetti fastidiosi. NB: avrei ricevuto informazioni dirette sulla Siberia solo molti anni dopo, da un amico che la attraversò in bicicletta – costui lavorava alla Sip e oltre che una grande passione per la bici aveva anche parecchio tempo libero – ebbene, mi disse che gli abitanti della Siberia si lamentavano, si lamentavano eccome, ed ha dormito in un letto con le pulci, ve ne parlerò prossimamente).
A pensarci bene in fondo erano tutti slogan ambientalisti ante litteram. Eravamo molto avanti, pure troppo. Ma non era esattamente di questo che volevo parlare.
Anno 2021: Tradizioni e cambiamenti climatici. L’esempio del Cinque Terre Sciacchetrà
il Decreto del 6 agosto 2021, Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, cita: Modifiche ordinarie al disciplinare di produzione della denominazione di origine controllata dei vini «Cinque Terre e Cinque Terre Sciacchetrà»
La modifica di un disciplinare Doc/Docg non è un fatto raro, si interviene ogni qualvolta si voglia migliorare, implementare o regolamentare maggiormente il sistema produttivo. Le modifiche possono anche introdurre nuove tutele alla qualità dei prodotti o qualche variazione dei processi produttivi.
In futuro magari avremo modo di parlarne ancora per esempio per quanto concerne i confini geografici di una famosissima DOC molto vicina a noi del Nord-Est. Nel caso invece di questo fantastico vino passito ligure le modifiche riguardano la composizione ampelografica, la densità dei ceppi per ettaro, il tenore zuccherino (minimo assicurabile 19%Vol e non più 17%Vol, e già si rizzano le antenne…) le rese per ettaro (al ribasso). Potrebbero sembrare tutte modifiche con un senso pratico, ma infine troviamo quella che – a mio avviso – rappresenta l’emblema del tentativo di porre rimedio agli effetti del cambiamento climatico. Una modifica che interviene pesantemente nella tradizione e nella storia di questo vino. All’articolo 5 infatti ecco comparire “La vinificazione delle uve, destinate alla produzione del vino «Cinque Terre Sciacchetrà» e «Sciacchetrà Riserva» non può avvenire prima del 1° ottobre dell’anno della vendemmia “.
Primo ottobre? Ma come, è concesso vinificare un mese prima? La data del 1° novembre era stata messa nero su bianco con l’introduzione della Doc, ma ancor prima era sempre stato il limite ritenuto idoneo per ottenere la migliore qualità del prodotto e per tradizione, per convenzione, per rispetto delle regole non scritte, tramandate di generazione in generazione nella sua storia secolare. Le uve per la produzione (Bosco e Albarola principalmente) sono sempre state vendemmiate in anticipo, per poi essere messe in appassimento in ambienti appositi (si lasciavano al sole in altri tempi) ma a quanto pare in questi anni le temperature sempre più alte di ottobre compromettono la qualità delle uve, e quindi del vino.
Spostare un mese in anticipo la vinificazione – attenzione non per una specifica annata ma per tutte le produzioni, da “oggi” in poi – vuol dire ammettere che l’orologio è sballato, che non sappiamo l’ora esatta; e ci fa credere che giocare con il tempo sia sufficiente per non fare i conti con la realtà.
Come in tante altre parti del mediterraneo il vino da uve passite era il vino “speciale”, bevuto nelle ricorrenze e nei momenti conviviali di una certa importanza, oltre che un prodotto di sostentamento. Bisogna però ricordarci che se oggi possiamo goderci lo Sciacchetrà è solo per merito del lavoro di generazioni di contadini e della loro tenacia.
Oggi lo Sciacchetrà è espressione dell’orgoglio di appartenenza ad una terra. E’ uno dei prodotti simbolo della Liguria e delle 5 Terre. Non è il vino che celebra la potenza militare navale della regione e nemmeno espressione della sua antica forza e della potenza commerciale. E’ il vino dei lavoratori della terra.
Per coltivare le viti in questa zona della Liguria nei secoli sono stati costruiti ammirevoli muretti a secco e terrazzamenti a picco sul mare. La potatura e la raccolta a mano, le operazioni in vigna e i trasporti, costano fatica e sacrificio. Parliamo di circa 30-35mila kg di uva in tutto, davvero poca in senso assoluto e se pensiamo alla fatica necessaria per ottenerla, se poi calcoliamo con un rapporto 4gk=1litro vediamo che si parla davvero di un prodotto di nicchia. Questa particolare viticoltura, senza mezzi motorizzati e in condizioni ambientali difficili – come in molte altre parti d’Italia e del Mondo- è definita “eroica”.
Uno studio dell’Università di Genova (Dip. Scienze per l’Architettura) ha proposto nel 2013 di applicare nell’area delle 5Terre alcune delle iniziative messe in atto nella regione del Douro (altra zona di viticoltura eroica, anche se con dimensioni e produzioni quantitative nettamente superiori). Una delle soluzioni proposte prevedeva di individuare un sistema di meccanizzazione “condiviso” e accessibile a più produttori che riducesse le spese di esercizio. Altri interventi proposti erano di tipo strutturale ovvero la costruzione di “ciglioni” – larghi o stretti a seconda della pendenza – dove le pendenze si aggirano tra il 30% ed il 50%! Ma gli operai specializzati per queste opere sono sempre meno. Qualcosa si muove, per esempio tramite un progetto europeo (“StoneWallForLife“) sono stati stanziati dei fondi per organizzare dei corsi di formazione per migranti e disoccupati per insegnare loro la posa e la manutenzione dei muri a secco. Sempre grazie allo stesso progetto si stanno testando dei sensori, installati sui muretti, che inviano dati sulla resistenza al cedimento, la saturazione del terreno, la pressione dell’acqua e la pressione all’interno del muro stesso. Troppo poco per risolvere i problemi, e poi bisogna anche fare i conti con la dispersione della proprietà terriera, chiamata anche frammentazione fondiaria.
Per avere qualche vantaggio nell’economia di scala servirebbero almeno 4 o 5 ettari vitati per azienda, ma mediamente la dimensione delle proprietà della DOC è di appena 100 metri quadrati. La zona di produzione è pertanto suddivisa in tanti appezzamenti e terrazzamenti di piccole dimensioni. Tutte queste difficoltà, oltre alla leggendaria lentezza della politica quando si tratta di prendere decisioni collettive e spendere soldi, non hanno cambiato di molto il quadro. Quando qualcuno dei produttori decide di lasciare l’attività – la maggior parte delle volte per motivi anagrafici e mancato ricambio generazionale – nonostante il prezzo di vendita del vino si aggiri tra i 110 e 180 euro al litro, i costi di gestione delle vigne ed i sacrifici per mantenerle sono un deterrente per i potenziali nuovi acquirenti. La probabilità che quelle vigne senza più viticultura restino abbandonate è molto alta e senza adeguata manutenzione dei terrazzamenti il rischio idrogeologico aumenta esponenzialmente.
Lo Sciacchetrà oggi è un prodotto esclusivo.
La bottiglia di Sciacchetrà che ho aperto e che sto condividendo con un caro amico contiene quindi “qualcosa” che ha attraversato i secoli e potrebbe non essere più la stessa in futuro. Però non siamo più spettatori del risultato della natura e del lavoro umano sulla materia prima, ma stiamo rincorrendo i cambiamenti della natura. Quanto potremo correre, quanto vantaggio abbiamo, quante volte ancora potremo spostare le lancette dell’orologio?
E’ successo, succederà ancora, non c’è nulla di cui stupirmi continuo a pensare.
Sono certo che anche in futuro il colore giallo dorato con sfumature ambrate, i profumi caratteristici, le note identificative, la personalità dello Sciacchetrà resteranno inalterati, come per molti altri vini che riceveranno le stesse modifiche di disciplinare. Siamo bravi a rincorrere le lancette. Non so però se saremo bravi a tenere il ritmo della corsa.
Ho come la sensazione che la crepa degli iceberg stia arrivando fin sotto al pavimento dove poggio i piedi. Mi sembra di vedere come un segno sottile, una lunga frattura che corre sulle mattonelle, come una linea dello spessore di un capello e che disegna traiettorie a zig zag. Continua davanti e dietro di me, fino a perdersi a vista d’occhio.
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Sciacchetrà. Perchè si chiama così ? Ci sono molte ipotesi in merito, questa tra le più accreditate
progetto Stoneforwall : qualche informazione in più ? clicca
muretti a secco in Liguria, qualche informazione
https://www.collettivomilarepa.it/muri-a-secco-in-liguria/
Davide Moressa ”Alien” – Sommelier appassionato di Vino e del mondo che lo circonda –
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