Il termine affezione nel linguaggio comune è usato nel significato di affetto, ovvero un sentimento di benevolenza verso il prossimo. In filosofia il termine indica tutto ciò che agisce sull’animo determinandone una modificazione. In tal senso, al di là di questi dogmi dottrinali, posso dire che la mia visita con Davide e Cristina all’atelier dell’artista Raffaele Minotto mi ha creato affezione verso l’artista e le sue opere, il suo passato, il suo atelier stesso. La serata trascorsa nel posto magico mi ha modificato. Lo studio si trova a Tribano, in una casa di campagna che un tempo era sede di un’azienda agricola della famiglia Buzzaccarini.
Arrivati all’edificio storico in una fredda serata di novembre, Raffaele ci ha accolti nella penombra dell’ingresso e siamo saliti sulle scale che portano al meraviglioso soppalco in legno dove ingegna ed esegue.
Appena entrati all’atelier, il fascino delle travi a vista, le luci calde e avvolgenti e l’odore delle pitture ad olio hanno inondato le mie percezioni. Nella luminosità dell’ex fienile, Raffaele si è presentato con la sua appassionante semplicità: jeans macchiati di pittura, camicia in velluto marrone, occhiali con cordino penzolanti al petto, sorriso mansueto.
Dopo esserci presentati abbiamo fatto un primo giro del locale e Raffaele, Mino come lo chiamano gli amici, ci ha illustrato le varie opere, una serie di oli su tavola di varie dimensioni eseguiti con soggetti e tecniche diverse. Allegramente sparsi tra le opere, un manichino in legno per artisti, una stufa storica, una tavolozza sbrodolosa facevano bella presenza, in modo naturale. In una zona circoscritta erano esposti i lavori eseguiti agli albori della sua produzione: puntasecca e acquaforte su rame o zinco o plexiglass, matita o fusaggine su carta.
Già da questo primo giro di ambientamento mi sono reso conto di essere in un luogo pregno di arte e sensibilità, soprattutto al centro del locale dove c’è il cuore pulsante, uno spazio delimitato da spessi fogli di nylon trasparente cadenti dal soffitto e imbrattati di colore: qui Raffaele crea, anche con lanci materici di spruzzi variopinti. Il risultato è una sorta di cabina/tavolozza, un’opera nell’opera che trasuda manualità, sapienza, casualità controllata, studiata estemporaneità. Ho scattato una foto che sembra essa stessa un quadro.
A questo punto ci siamo seduti a un tavolo in legno e tra pennelli e schizzi a matita abbiamo imbandito la tavola del salame, del pan de Bari e del vino che avevamo portato. Abbiamo fatto banchetto e intanto ci siamo raccontati l’un l’altro e Raffaele ci ha spiegato della sua vita e della sua tecnica pittorica.
Egli è cresciuto in una famiglia di collaboratori (la mamma cuoca e attendente alla casa, il papà cameriere, autista e tuttofare) della famiglia Buzzaccarini. Nel palazzo nobiliare, in via Euganea 23 a Padova, è cresciuto in un ambiente luminoso, rispettoso della lentezza del tempo, per certi aspetti asettico, per altri vivace, che gli sono entrati nell’intimo. Ci racconta che all’inizio della produzione artistica ha cercato di esplorare diverse tecniche e soggetti, opere in cui c’è grande attrazione per la semplicità, l’artigianalità, la natura.
Oggi l’artista, nel suo percorso di crescita, si sta dedicando alla rappresentazione delle stanze in cui è cresciuto. Spesso prende a soggetto i salotti in cui la famiglia nobiliare banchettava la domenica. Posso immaginare i genitori indaffarati ai preparativi, affinché per il pranzo con ospiti tutto fosse perfetto, una domenica mattina di fermento in cui il piccolo Mino cercava di dare una mano portando piatti e posate. Ecco quindi che inizia il pranzo, sento il vociare allegro e il tintinnio dei brindisi su bicchieri di cristallo. Poi, a una certa ora, i saluti e i ringraziamenti. Il salotto si svuota, gli ospiti se ne vanno e i nobili si ritirano a riposare.
Questo è il momento in cui si compie l’opera: una visione carica di luci e trasparenze in una stanza silenziosa, un attimo dopo che le presenze umane hanno lasciato la stanza. Lo spettatore resta solo col proprio respiro, sospeso tra mille immaginazioni, tra oggetti pregni di vita e di memorie di Raffaele.
La tecnica si snoda attraverso un lento percorso creativo: egli fa una foto del soggetto, quasi sempre con prospettive grandangolari per accentuare la profondità, poi esegue un disegno a fusaggine particolareggiato e attento ai chiaroscuri; poi Raffaele passa alle prime macchie di colore a olio, molto diluito per lasciar trasparire il disegno sottostante (una sorta di acquerello); quindi con gessetto bianco “carica” la luminosità per esaltare i contrasti di luce (e qui esplode la fantasia del bambino che osserva i riflessi e le trasparenze, piccoli giochi magici che sfuggono all’esigua sensibilità rimasta negli adulti). A questo punto Mino completa con colore a olio, tinte più spesse, stesura finale.
Proprio lì, seduti a quel tavolo in legno dove abbiamo banchettato e ce la siamo raccontata ho potuto capire l’arte di Raffaele. Complici la fraternità del salame con pan de Bari e la dignitosa sincerità del Merlot, l’atmosfera è diventata rarefatta e lineare.
Raffaele è un uomo che ha scelto di ascoltare e seguire il fanciullo che c’è in lui, che c’è in ognuno di noi. Non indossa le maschere a cui la vita moderna spesso obbliga. Egli è un coraggioso che ha deciso di essere libero, semplice, buono, affabile, ovvero tutto ciò che necessariamente l’uomo moderno deve aspirare ad essere, per salvarsi.
Rientrato a casa da quella serata piacevole e da quel luogo incantevole, ho visionato il suo catalogo e sono stato attratto dalla dicotomia tra le opere e i loro titoli: le une particolareggiate e, ora che ne conosco la tecnica, complicate: gli altri, di una semplicità estrema e amorevole.
Visionate voi stessi: personalmente ho un debole (non credo di averlo nascosto) per la serie dei Banchetti, e poi per “Incontro sull’argine” della serie Paesaggi e per “Scorcio della fonderia” della serie Incisioni. Non ho trovato a catalogo, ma era presente all’atelier, l’opera raffigurata alla voce “Incisioni” nel menù Opere del suo sito. Toccante bellezza.
Questo è il momento in cui si compie l’opera: una visione carica di luci e trasparenze in una stanza silenziosa, un attimo dopo che le presenze umane hanno lasciato la stanza. Lo spettatore resta solo col proprio respiro, sospeso tra mille immaginazioni, tra oggetti pregni di vita e di memorie di Raffaele.
La cosa incredibile è che sfogliando il catalogo, in cui le opere sono datate per anno di realizzazione, mi accorgo che il percorso di Raffaele è più o meno sovrapponibile al percorso della sua tecnica: dapprima il carboncino, poi gli oli, poi le trasparenze, infine il materico. Un’altra immagine nitida prende forma nella mente, e forse è proprio qui tutta l’affezione che provo per lui: il piccolo Raffaele in calzoncini corti osserva la stanza vuota dopo il pranzo; a un certo punto egli inizia a crescere, allungarsi, farsi smilzo, indossare i calzoni lunghi, per arrivare a ingrigire leggermente i capelli. Sullo sfondo, la stanza si modifica con lui, seguendo il tempo delle stagioni artistiche, delle età evolutive di Mino: dapprima diventa foto, poi una tavola vuota su cui appare il primo carboncino, poi l’acquerello, quindi il bianco, infine il materico.
Le sue opere trasmettono umanità quanto la sua semplicità è contagiosa, per questo il testo che ho scritto è così denso di “bendisposizione”. Raffaele bendispone, col suo modo e il suo lavoro. Non so se si possa, ma azzardo (magari Raffaele ne sarebbe contento): andate a visitarlo all’atelier di Tribano.
Egli sta esponendo in numerose mostre ed esposizioni di livello, tuttavia è lì, nella calma e nella comunicazione serena che si può instaurare nel suo laboratorio, che potrete godere appieno dell’artista.
Abbiamo tutti bisogno di scomporci e tornare ai numeri primi, dove ritrovare noi stessi.
https://www.raffaeleminotto.it/
Se l’articolo ti è piaciuto puoi esprimere il tuo gradimento e seguirci tramite la pagina Facebook degli Alkimysty.
https://www.facebook.com/Alkimysty/
Kioske