Stamattina il cielo è azzurro intenso e il sole salubre, così Barbara e io andiamo a camminare. Incrociamo alcuni conoscenti di Vicenza e ci chiediamo cosa facciano qui a Dueville di domenica mattina, ma appena arriviamo alla zona sportiva capiamo tutto. Gli spalti dei due campi da calcio adiacenti sono gremiti di gente, i terreni di gioco punteggiati di coloriti marmocchi, c’è musica dagli altoparlanti e profumo di fritto proviene da un truck food nel piazzale: c’è il classico torneo fra tante squadre, di quelli che si fanno a fine stagione. Che meraviglia!
Noi proseguiamo il nostro cammino e ci allontaniamo verso il paese, prima, e le campagne dopo. La mattinata è splendida e la corona di montagne a nord e ovest arricchisce la vista già saziante della nostra pianura. Non posso fare a meno di raccontare a Barbara di quando a calcio giocavamo noi, da bociasse.
Quante cose sono cambiate: i presidenti delle società erano in pratica dei benefattori, la retta annuale era libera, secondo le possibilità delle famiglie; gli allenatori erano entusiasti dopolavoristi che senza alcun patentino proiettavano la loro idea di calcio su un’accozzaglia di marmocchi che idolatrava il pallone e non calciatori dal volto mediatico; il medico e massaggiatore era il genitore di qualcuno dei ragazzi, bastava una buona abilità nel maneggiare la spugna. L’accompagnatore non era uno, non c’era il pullmino, ma in pratica un esercito di genitori con Fiat 127 e Ritmo. L’arbitro aveva quarant’anni e la panza, non un sedicenne, e se ti comportavi male col cavolo che si faceva sotterrare; i campi erano campi, non prati erbosi, e le righe fatte a calce con l’apposito carretto (“i ga molà i mas-ci par far le righe”, quando erano più storte del solito); i palloni erano mattoni, fossero stati squadrati ci sarebbero ancora case a quadroni bianchi e neri; e poi le maglie di flanella anche a maggio, finita la partita avevi irritazioni plurime. In sintesi, il calcio era proprio un altro sport, ben più grezzo e verace. Dal punto di vista dei giovani d’oggi, il vecchio calcio potrebbe essere assimilabile al rugby.
Ormai camminiamo da un’oretta e mezza e passiamo a fianco dei due campi da calcio, ma sul lato opposto lungo la recinzione. Dalle tribune giungono i più svariati commenti di genitori e parenti: i “passa”, “tira” e “crossa” mettono in confusione i portatori di palla, che si fanno soffiare il pallone. Disallineati (e più dialettali) “desso”, “spetta” e “compagnalo”, invece, ubriacano i difensori, che cadono a terra molli. Oggi è troppo una giornata di festa per sentire anche i “falcialo” che a volte scappa tristemente ai più esagitati; tuttavia sento un “dai, cattivo!” che vorrebbe solo tirar fuori la grinta da quel ragazzetto impomatato col 7 sulla maglia che calcia le punizioni partendo a gambe larghe. È un torneo pulcini, i due terreni di gioco sono stati divisi in sei mini campi dove ogni colore, di maglia e di pelle, rende fantastico l’ arcobaleno sportivo.
I marmocchi in campo sono gli unici che tacciono, loro giocano, mentre i giocatori non in gara, se non sono in pausa hamburger al truck food, incitano compagni e amici. Dal nostro lato passeggiata ci sono le panchine dei mister. Ce n’è uno che richiama l’attenzione su un contropiede gridando “Direttore, è offside!”, tirandosi su le maniche di camicia. È vero, da qualche tempo la giacchetta nera viene chiamata così dai protagonisti del gioco, non so se sia regola o convenzione. Tuttavia, sul campo adiacente, un mister meno infracchettato urla “Arbitro, è fallo”, allentando la cerniera della tuta sportiva. Mi viene in mente il mio primo allenatore Bepi, grande amore per il calcio e naso rosso per il vino, gridare “Albitro, è outo!” (non ho mai capito perché la o finale dopo “out”, ma lui era il mister e allora andava bene cosi) mentre allargava con due dita il girocollo della maglietta sponsorizzata ferramenta Cerin.
Ci allontaniamo dai campi di gioco, grida e urli scemano, l’energia scende. Ora mi è chiaro che se il calcio è cambiato quasi fosse un altro sport, i genitori dei piccoli atleti sono sempre uguali. Ne sanno sempre una più di tutti. Però, di fondo, e questa è l’unica cosa che conta: che il mister dei nostri figli indossi camicia, tuta o t-shirt a caso, l’importante è che i marmocchi indossino una casacca identitaria e facciano sport.
Non c’è al mondo maggior agglomerato di energia positiva di un campo pieno di bimbi. Lasciamo fare a loro.
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