Il mondo sta cambiando in fretta e molti giovani blogger sanno parlare di viaggi con buone intuizioni e validi elementi, proseguendo nei fatti quello che Susy Blady e Patrizio Roversi avevano iniziato con il programma televisivo “Turisti per caso”. Ma io turista per caso, nel senso di improvvisato, lo sono quando viaggio nel web, per cui mi limiterò a descrivere ciò che ho visto in Alsazia, Vallonia e Fiandre. Gli amanti dell’arte e dell’architettura gotica riterranno da subito valida la scelta di visitare le tre regioni, come anche i nostalgici delle campagne incontaminate che in Veneto sono sparite da 60 anni. Effettivamente viaggiare nelle strade secondarie di questi paesi riempie il cuore, il numero di vacche al pascolo, in simbiosi con la campagna circostante, è a tratti emozionante. Ma partiamo dall’inizio, dall’immancabile colonna per incidente sulla A4 che poco prima di Milano ci ha obbligato a deviazioni nell’agglomerato urbano unificato nord milanese fino a Como. Attraversata la marmellata cementizia e sconfinati a Chiasso con la sensazione di essere frontalieri, abbiamo raggiunto a medie molto basse il San Gottardo. Gli svizzeri non mi creano particolari sentimenti, del resto sono storicamente neutrali e quindi godono di una empatia inesistente col mondo, ma ho la sensazione che vengano nelle nostre autostrade a sfogarsi, in casa fanno i cucciolotti a 5 chilometri orari sotto il limite, in Italia sgasano in terza corsia. Sappiate che almeno un’ora di colonna, al tunnel del San Gottardo nel cuore del paese elvetico, è praticamente inevitabile visto che si passa a turni di poche auto alla volta (del resto il passaggio dalle due corsie a quella unica della galleria li obbliga al semaforo). Fatto il tunnel, come per miracolo spariscono i paesi dal nome italiano e iniziano quelli in tedesco; qualcuno, qui, si chiamerà Heidi o Peter. Arriviamo costeggiando svariati laghi al confine con la Francia lasciandoci alle spalle Basilea e le sue industrie farmaceutiche. Da Mulhouse in poi è pianura e collina, ormai il tramonto sta ardendo e il paesaggio si sta modificando in pennellate d’autore. La natura diviene sovrana e rapito da tanta fragrante bellezza non vedo più le automobili in strada, ma vitigni dorati, falchi svolazzanti e filari di pioppi lungo l’autostrada(!). Il pilota automatico mi porta fino a nord di Colmar, dove dormiamo a Mutzig, un tranquillo paesino medievale. La sera ceniamo in un paese maggiormente medievale, Molsheim: anche la casa più insignificante sembra essere di origine più che centenaria. Al mattino partiamo verso il Belgio affiancando i moderni palazzi della finanza a Strasburgo e in Lussemburgo. Quindi puntiamo dritti a Orval. Qui visitiamo la vecchia abbazia dei frati, un posto che è stato semidistrutto due o tre volte nel tempo (l’ultimo evento fu durante la rivoluzione francese). Il luogo è incantevole, disperso tra colline boschive o coltivate, mai incolte. L’interno è curatissimo e verdeggiante. Sotto una volta gotica troviamo una colonia di pipistrelli con i piccoli ed è affascinante sapere che dei frugoletti alati trovino riparo qui, scagazzando a testa in giù sui turisti ignari.
Il monastero moderno non è invece visitabile se non in particolari condizioni, dico la verità mi sono informato poco, magari bastava fare la comunione o una umile donazione. Tuttavia comprate le due scatole di Orval concesse abbiamo proseguito per Florenville dove abbiamo assaggiato la birra in un bistrot. Mi aspettavo ci fossero vari tipi di Orval, invece c’è n’è solo una. Frati pelandroni, da queste parti, e pensare che dalla ciminiera del “nuovo” monastero fumi di sostanziose decotte parlano di produzioni su larga scala. Mi chiedo anche perché dei frati di abbazia, dal momento che agli inizi avranno scelto cosa produrre, si siano dedicati alla birra. Voglio dire, avrebbero potuto coltivare Fagioli, come ha fatto la Juve negli ultimi anni, oppure fragole per golose marmellate. No, i frati optarono per il luppolo, a scopo birraio; ma non contenti, oggi selezionano luppoli eccellenti e fermentano birre che partono da sei/sette gradi, la benzina super a 95 ottani, per arrivare a bombette da 10 gradi. Ora io non mi rendo conto quanto sia difficile mandare avanti un circo come un monastero, però i muratori veneti faticano di più consumando meno. Cioè, i frati avrebbero potuto produrre qualcosa di più leggero, una Nastro Orval da 5 gradi, sciaquette che non facciano dimenticare i salmi. Ma evidentemente ci sono fatiche che non sono commisurate a quelle fisiche e per tirare a campa’ si è scelto qualcosa di forte, con grande gioia di noi spettatori paganti. Bevuta la Orval senza arrivare a una conclusione su tali dubbi, ma apprezzando il risultato del divino lavoro fatto dai frati, riprendiamo il tragitto e in men che non si dica siamo a Bruxelles. Accasate le valigie usciamo subito e ci rendiamo conto che la capitale è una città sorprendente e vitale. A me era sempre stata un poco sulle scatole perché mi ricordava l’eurovisione Rai in una sera di maggio, l’Heysel con l’Atomium alle spalle e un benvenuto a me bambino nella realtà del tifo violento, degli stadi insicuri ma agibili per convenienza e del cinema calcistico che non può saltare proiezioni e mi ricordava, pure, un inutile e interminabile controllo in stazione durante il primo interrail col mio amico Alessandro. Dall’anno scorso, però, l’amica Irene si è trasferita nella capitale belga e conoscendo la sua profondità e intelligenza ho capito che probabilmente ero vittima di preconcetti. In realtà Bruxelles brulica di locali di tutti i tipi, permette di approcciarsi a qualsiasi cucina, è a misura d’uomo, ha una densità di locali che non obbliga a lunghi spostamenti, non ha molti orari, presenta vari dipinti sui muri, ha ancora negozi di vinili (rari), propone birre pazzesche. Insomma, dopo una visita al museo reale delle belle arti o a quello di Magritte (ma anche a quello del fumetto) la città attira con facilità lo stanco turista a rilassarsi al tavolino di una piazzetta con una corposa trappista.
Ci siamo adattati facilmente in questi tre giorni, di cui l’ultimo speso all’Atomium prima di trasferirsi, con tanto di pausa-bruschetta in un paesino di campagna diviso in due da un ponte levatoio sul canale navigabile, al confettino fiammingo: Bruges. Abbiamo soggiornato in un terzo piano carinissimo ma che per accesso aveva una scala in legno che presentava 16 pericoli di caduta, 4 di impatto frontale su travi, 6 di scivolamento con ritorno al via o diretto in stazione di arrivo, uno di incastro. Però Bruges è molto bella, anche se limitata come estensione, la grand Place markt è vivissima, il giro in barchetta divertente anche se Venezia è inarrivabile (oltre che vera), e la birreria DeGarre unica (e questa si molto vera, in fondo a un vicoletto in cui non entreresti mai ma in cui mi aspettavo di incrociare Andy Capp). Finalmente ho assaggiato le Moules au vin Blanc (col sedano), eccellenti! Al mattino successivo, a sorpresa, pioveva. Ci siamo bagnati abbastanza, tutto per non spendere la modica cifra di 17 euro di parcheggio in centro, ma è stato bello fare i conti con la pioggia lì e anche alla spiaggia di Ostenda, sul mare del nord, che abbiamo affrontato con due k-way di fortuna, a dire il vero un po’ garbagebag.
Devo dire che i colori del mare del nord (e della sua sabbia), il vento ostendino nelle orecchie, i gabbiani farneticanti e l’acqua del mare del nord sui piedi scalzi del sud hanno reso il momento unico. C’erano alcune piattaforme petrolifere a rendere maggiormente diverso questo mare dai nostri. A questo punto, dopo tanta acqua, era d’obbligo cambiare aria, e ci siamo spostati a Chimay. L’ esperienza di degustazione coi formaggi penso sia abbastanza classica e basica, però trascorrere tempo qui, nei tavoli esterni nel silenzio della campagna belga, è stato appagante per il palato e salutare per l’animo. L’ espace Chimay, infatti, è immerso nel verde e rende tutto perfetto, come se il palato e la psiche confluissero in uno stesso punto, al centro dell’essere umano. Ci chiedevamo: è il posto che ti fa innamorare della birra o la birra del posto? Certamente ambo le cose.
Terminata la nostra esperienza e acquistate alcune bottiglie, siamo ripartiti attraversando fino a Metz boschi e praterie che mi hanno fatto sentire in fuga solitaria alla Freccia Vallone. Bellissimo il confine franco belga tra due comunità piccolissime, una vecchia dogana intrisa di profumi di formaggio su un percorso di quinta mano. Comunque verso sera, dopo una pizza in territorio francese di lingua tedesca scopriamo di aver forato. C’è un grosso chiodo conficcato nel pneumatico. Riusciamo ad arrivare a Strasburgo con pressione a 1,8 e al mattino alle 8 siamo dal gommista. Il quale gommista mi sorprende, ripara la ruota in mezz’ora per 30 euro. Mi chiedo: perché in Italia non lo facciamo, ma sostituiamo sempre? Vero che in veneto servono sempre pneumatici vecchi per coprire il cirroso col nylon, ma potremmo ripararli anche qui, no? Comunque si riparte, questo è l’ importante, ripassiamo la Svizzera, che persiste a risultarmi sentimentalmente neutrale, rifrontaliando a Chiasso. Propongo un passaggio a Como. Devo dire che la città, almeno sul lungo lago adiacente allo stadio, non è più il luogo ameno che ricordavo, non è più lo stesso. Solo il Sinigaglia resta (brutto) uguale nella mia mente, piccolo nei volumi e fascista nello stile. Okay, è ora di tornare a casa, due orette e siamo di nuovo in veneto. Abbiamo girato e visto tantissima mittel-nord Europa. Cosa mi resta soprattutto? Il rimpianto per non aver saputo salvaguardare il nostro ambiente vicentino, veneto e padano dalla cementificazione. Andate in Alsazia, Fiandre e Vallonia, capirete cosa intendo. Ora capisco perché i ciclisti adorano le grandi classiche franco-belghe.
Per approfondire il tema delle birre belghe:
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